Monsignor Muser, cosa vuol dire essere vescovo nella Chiesa di papa Francesco?
Non esiste la Chiesa di papa Francesco, ma solo la Chiesa di Gesù Cristo. Papa Francesco, tuttavia, è il Pietro di oggi. Il mio primo incontro con lui è stato la sera del 14 aprile 2013 nella Casa S. Marta in Vaticano. Quattro giorni dopo, insieme ad altri sei vescovi, mi ha ricevuto per il colloquio ad Adlimina, che è durato un'ora e quaranta minuti. Da quel primo incontro, mi ha accompagnato un’impressione precisa: questo è un uomo interiormente libero! Lo percepisco come una persona e un ministro del calibro dei profeti biblici: radicato nella Parola di Dio, diretto, scomodo, stimolante, senza paura, uno che ci invita al "discernimento degli spiriti". Tutto questo fa bene alla Chiesa - anche a me come vescovo.
Con quali sentimenti ha iniziato il cammino da vescovo 10 anni fa?
Sono diventato vescovo perché il vescovo Karl Golser ha dovuto dimettersi a causa della sua grave malattia. Questo fatto doloroso era molto presente in me in quel momento. Questo segno, con il quale tutto è iniziato, non lo sento però come un peso, ma piuttosto come qualcosa che spero mi abbia fatto maturare e che mi abbia aiutato a comprendere ancor di più la mia vita come dono, missione e vocazione. La nomina da parte di papa Benedetto il 27 luglio e ancor più il giorno dell‘ordinazione episcopale il 9 ottobre 2011 sono stati collegati con sentimenti contrastanti che hanno attraversato la mia mente e il mio cuore. Questi giorni hanno cambiato e plasmato la mia vita. In questi 10 anni passati il mio motto episcopale mi ha dato coraggio, gioia, convinzione e un grande sollievo. "Tu es Christus". Si tratta di te, Cristo. È la tua Chiesa, non la mia! Questo motto è diventato per me sempre più una preghiera personale. Poiché Gesù di Nazareth è il Cristo, io sono cristiano, sacerdote e vescovo con gioia piena di speranza – ed essere umano in tutto.
Come è cambiata la Diocesi in questi 10 anni?
Il cambiamento è drastico e non può più essere trascurato. Siamo diventati più poveri di persone! La voce della chiesa è una voce tra tante altre. Le persone percepiscono la fede e la chiesa come una questione privata; decidono soggettivamente cosa accettare e cosa rifiutare, ciò che piace, ciò che è giusto e vero per loro. Il lato oggettivo della fede e della Chiesa viene condiviso sempre meno. Le persone scelgono anche quando si tratta di contenuti centrali della fede. Molti chiedono e intendono i sacramenti come un evento rituale e sempre meno come un dono che modella e determina la loro vita.
Quando passerò il pastorale vescovile al mio successore, il volto della nostra diocesi sarà diventato un altro. In questo devo dire che il cambiamento non mi spaventa. Conosco l'importanza delle strutture, ma non sono attaccato ad esse; sono cambiate molte volte nella lunga storia della Chiesa. Molte cose nella Chiesa possono cambiare. Sono addolorato quando ho questa impressione: ci sono sempre più persone per le quali la Chiesa, che è la mia casa nella fede, non ha più molto significato. Ciò che a me sta a cuore non è essere forti esteriormente o avere una pretesa di potere nella società, ma essere convinto che l'immagine cristiana di Dio e dell'uomo ha tanto da darci per la nostra autocoscienza, per i nostri rapporti con l'altro, attraverso la creazione e con tutte le domande scottanti che appartengono al nostro essere persone. Per dirla in un altro modo: con Gesù Cristo posso vivere. E ciò che è altrettanto importante: con lui posso anche morire pieno di speranza.
Se dovesse scegliere tre momenti di questi 10 anni a livello ecclesiale o sociale, quali ritiene più significativi?
Ci sono stati molti momenti significativi di cui potrei raccontare: celebrazioni, consacrazioni, soprattutto l'ordinazione episcopale di Michele Tomasi, visite pastorali, colloqui, lettere, decisioni, incontri con persone molto diverse, preoccupazioni e aspettative. Spesso sono i momenti che non sono destinati al pubblico, che non si ritrovano sui media, in un titolo o in un articolo di giornale. Mi ha molto toccato sentire spesso quanta fiducia sia stata riposta in me. Tre momenti da ricordare sono stati sicuramente: la beatificazione di Josef Mayr-Nusser, il nostro Sinodo diocesano, la discussione sul doppio passaporto. In queste fasi ho sperimentato personalmente cosa significa essere vescovo nella nostra Diocesi e cosa caratterizza la specialità, la sfida e la vocazione della nostra Chiesa locale.
In questi 10 anni cosa ha potuto apprezzare nella comunità locale e cosa invece le dispiace?
Molti altoatesini e altoatesine fanno volontariato - spesso per lunghi anni. Sono attivi in associazioni e organizzazioni, nel campo dell'arte e della cultura, nella musica e nello sport, nei vigili del fuoco e nelle istituzioni sociali e, ultimo ma non meno importante, nelle nostre parrocchie e in molti gruppi ecclesiali. E lo fanno gratuitamente; per gioia e interesse, per gratitudine, per fede, nella consapevolezza che una comunità può vivere solo se molti si impegnano e si mettono a disposizione, per amore del prossimo o anche nella consapevolezza del valore della nostra cultura e tradizione. Sono semplicemente presenti per coloro che hanno bisogno di aiuto, durante eventi e manifestazioni, nei servizi sociali e di assistenza, negli incidenti e nelle situazioni di emergenza. Questa disponibilità è un bene inestimabile e una testimonianza di vera umanità! Possiamo essere orgogliosi di ciò.
Per contro non mi piace la mentalità diffusa del "noi siamo noi". Ho spesso sperimentato che c'è una pronunciata attitudine a fermarsi su se stessi, a leccarsi le proprie ferite, a sentirsi migliori e a prendere le distanze dagli altri - interiormente ed esteriormente. A ciò si collegano anche una crescente insoddisfazione e ingratitudine e l'atteggiamento di pretendere di più e sempre di più. Ed esigiamo ad un livello elevato. Ma uno sguardo aperto e onesto sulla realtà in molte parti del nostro mondo può renderci chiaro ciò che abbiamo e che non siamo davvero l'ombelico del mondo. Un tale sguardo ci fa pensare, ci rende grati e porta a buone conseguenze e cambiamenti.
Il vescovo incontra ogni giorno tante persone. Ci racconta un incontro che l’ha colpita in modo particolare?
Rappresentativi dei molti incontri, vorrei soffermarmi su almeno tre di questi.
2012: Una donna di 54 anni mi ha raccontato di essere stata abusata sessualmente da due suoi zii per più di dieci anni, quando era ragazza. Trovava particolarmente terribile e umiliante che sua madre lo sapesse e non avesse il coraggio di intervenire perché dipendeva economicamente dai suoi fratelli. Il modo in cui questa donna ha potuto parlare della sua sofferenza mi ha toccato profondamente. E ciò che mi ha colpito di più è stata la sua disponibilità a perdonare - nonostante tutto.
2016: Una giovane madre mi ha detto in una lunga e commovente conversazione che aspettava un bambino gravemente disabile. Nonostante l'atteggiamento di rifiuto del marito, ha voluto dare alla luce il suo bambino. Nel frattempo, il marito l'aveva lasciata; lei è rimasta ferma nella sua decisione. Ammirevole!
2017: Una coppia dell'ex Unione Sovietica mi ha raccontato della loro famiglia numerosa "sopravvissuta" per quasi vent'anni senza sacerdote e senza celebrazione eucaristica al tempo del comunismo. I parenti si incontravano domenica dopo domenica in segreto, leggevano la Parola di Dio, pregavano i testi della Messa e posavano sul tavolo una vecchia stola che avevano ancora dall'ultimo sacerdote defunto della loro comunità. In questo modo si univano in preghiera alla celebrazione eucaristica geograficamente più vicina a loro. Una testimonianza di fede che mi ha toccato molto.
Uno dei fenomeni che in questi anni attraversa tutte le diocesi è il calo del numero di sacerdoti. Come vive tutto questo?
Questo sviluppo va al cuore della questione e colpisce il nervo scoperto della nostra Chiesa. Ritengo riduttivo parlare solo del calo del numero dei sacerdoti. Il declino dei fedeli è altrettanto forte. Questo declino è ancora più ricco di conseguenze. Senza il ministero sacramentale dei nostri sacerdoti le parrocchie sono erose dall'interno e senza i fedeli, una parrocchia perde la sua ragion d'essere. Non c'è nulla da nascondere: oggi è una questione di essere o non essere. Si tratta di molto più di una crisi della Chiesa. Per me, si tratta della questione stessa di Dio. Se lo sviluppo continuerà così, molte delle nostre parrocchie e anche le congregazioni religiose non avranno futuro. Mi chiedo spesso: è questo che vogliamo? Cosa mancherebbe all'Alto Adige, all'Italia, all'Europa e al mondo se il messaggio di Gesù e tutto ciò che ha a che fare con la Chiesa non esistessero più? Pensiamo di conseguenza se venisse a mancare tutto ciò che ha a che fare con la fede e la Chiesa nella nostra società, davvero tutto. Cosa resterebbe? Non diventerebbe tutto molto più freddo, desolato, senza pietà?
Gli ultimi due anni sono stati segnati dalla pandemia. Quali elementi di speranza ha visto in questo periodo?
Da sola, l'esperienza del coronavirus non ci renderà migliori. Le crisi possono far emergere il meglio delle persone, ma anche i lati oscuri. Stiamo sperimentando sempre di più quanto questa pandemia stia dividendo la nostra società. Ma non sarei un cristiano se non sperassi. Nonostante tutto, ho vissuto e sentito molte cose buone in questi due anni: molta solidarietà, segni di vicinanza, di responsabilità e aiuto concreto. Ma mi preoccupa anche l'atteggiamento diffuso del voler tornare il più rapidamente possibile a com’era prima: senza rinunce, senza ripensamenti, con molte pretese. Cosa saremo capaci di scegliere? Questa pandemia può insegnarci a decelerare e aiutarci a ripensare il nostro atteggiamento verso la vita e il nostro progetto di vita. Niente nella nostra vita può essere dato per scontato, non abbiamo diritto a tutto. "Volere di meno" affina il nostro sguardo su ciò che è essenziale e per il molto che già abbiamo: ci rende più grati a Dio e alle persone. Questa pandemia ci mette in ginocchio per offrirci l’opportunità di poterci rialzare cambiati e rafforzati. Speriamo che questa crisi ci aiuti a riflettere su libertà e responsabilità. Ma tutto questo accadrà solo se lo vogliamo assieme.
Quali passi come Diocesi siamo chiamati a compiere nel futuro?
Come Chiesa non dobbiamo reinventare il "programma". I nostri passi nel futuro sono sempre legati a Gesù di Nazareth, alla sua persona e al suo Vangelo. Questa è l'identità della Chiesa, la conversione e il rinnovamento su cui misurarla costantemente: spesso anche con con dolore e vergogna per noi stessi. L’uomo è la via della Chiesa, per usare la frase di Papa Giovanni Paolo II. Senza l'identità che consiste nella relazione con Cristo fatto uomo, crocifisso e risorto, noi come Chiesa non abbiamo nulla da dare alle persone che hanno domande, necessità, ferite e speranze. Anche in futuro questo cammino della Chiesa includerà tanto le esperienze come lottare, mettere in discussione, cercare, dubitare, non capire, lamentarsi, chiedere e gridare, quanto quelle di ringraziare, lodare, sperare, condividere, capire, celebrare, gioire e esultare: con Gesù Cristo, il Risorto, come centro che congiunge, unifica e allevia. Per la mia ordinazione episcopale, 10 anni fa, ho chiesto un solo canto al coro della cattedrale di Bressanone: il corale di Johann Sebastian Bach "Jesus bleibet meine Freude", Gesù rimane la mia gioia.
Cosa si augura per i suoi prossimi anni da vescovo?
In un'intervista, pochi giorni prima della mia ordinazione episcopale, mi è stato chiesto: che cosa si dovrebbe poter dire di lei all'inizio del mandato del suo successore?. Una buona domanda da fare a qualcuno che non ha ancora iniziato. Questa domanda mi accompagna da 10 anni e non mi abbandona. Vorrei che la gente potesse dire di me: l'abbiamo conosciuto come persona di fede e da vescovo del suo tempo ha contribuito a far sì che la fede cristiana si sia conservata nella nostra società come fonte di gioia, speranza, sostegno, orientamento e come un camminare verso una grande meta.